Capitolo
1
Del buio non
ci si può fidare, ma bisogna averne rispetto. Per questo aprii la
porta d’ingresso senza bruschi strattoni. Proprio per rispetto. E
per meglio cogliere quell’odore di un tempo: un misto tra naftalina
e olio di mandorle dolci. Con mia grande gioia, era ancora lì e fece
ripartire ogni ingranaggio della mia mente, senza nemmeno un lieve
cigolio.
La memoria è uno strano marchingegno: alcuni ricordi sono una carezza sul
cuore; altri diventano vere e proprie unghie nella carne. Due
sensazioni che in quel momento provavo contemporaneamente. Il
risultato era un logorante senso di smarrimento.
In quella casa avevo imparato che alcune esperienze ridestate possono
essere così dolorose, che talvolta è preferibile dimenticarle. Se
invece ci si vuole convincere di una realtà contraffatta, la memoria
diventa uno scudo, una forma di autodifesa, che rende tutto più
semplice. Basta negare una reminescenza infelice e sostituirla con
un’altra più rassicurante. “Ma rimuovere i ricordi servirà a tenerli
a bada per sempre? Il tempo cancellerà proprio ogni traccia? Ed è
lecito mentire a se stessi?” mi ero sempre domandato. Non sono mai
riuscito a darmi una risposta, ma di una cosa ero certo: la
coscienza saprà tollerare, poiché potrebbe essere l’unico modo per
salvaguardare il futuro. Il mio cuore, però, non dimentica.
Quando accesi la luce, il pavimento di mattonelle color ocra, la madia
antica e la mensola su cui poggiava la tazza di ceramica, dal cui
manico pendeva un rosario di madreperla, mi apparvero come se da
quel luogo non mi fossi mai allontanato. Sembrava che persino la
polvere ne avesse avuto riguardo.
Al piano superiore, osservando il grande letto con la testiera in ferro
battuto, mi domandai: «Dormirò qui o nella solita cameretta?»
Aprii la finestra e spinsi all’esterno le persiane di legno. Mi
abbandonai al piacere di respirare, mentre un profumo di erba appena
falciata si riversava nella stanza.
«Agostino. Sì, si chiamava Agostino. Chissà se abita ancora qui»,
sussurrai. Guardai fuori ma ormai la notte era calata, il richiamo
amoroso dei grilli come sottofondo, la luna sembrava uno spicchio di
limone fosforescente. Mi scostai dalla finestra per lasciarmi
sprofondare su una poltrona. Mi guardai intorno, nulla è cambiato,
tutto era esattamente come un tempo, ad eccezione di… Lo sguardo mi
cadde su una fotografia, sul comodino. La presi tra le mani e
accarezzai il vetro che la proteggeva. «Tutto è rimasto come allora,
manchi solo tu.» dissi.
Subito dopo dovetti posarla, perché mi faceva male il petto.
Dopo aver accostato le persiane, abbassai la zanzariera. Andai poi nella
cameretta, dove un tempo dormivo, e lo sguardo corse alla finestra
più lontana. Durante la guerra, per un breve periodo, non era
visibile da quel punto e si poteva scorgere solo dall’esterno,
poiché parte di quella stanza era stata murata per procurare un
nascondiglio al figlio più grande di mia nonna, lo zio Antonio.
A quei tempi lo zio aveva diciotto anni e nessuna intenzione di partire
soldato. Due dei suoi amici, poco più grandi di lui, erano sì
tornati dal fronte, ma “tutti sgangherati”, per usare le sue parole.
Uno aveva ricevuto il congedo illimitato per aver perso tre dita a
causa di una bomba a mano senza sicura; all’altro era andata anche
peggio: non parlava, non mangiava e aveva lo sguardo fisso nel
vuoto. Lo avevano adagiato su un letto e da lì non si era più
alzato. Alcuni erano convinti che fingesse abilmente, ma si erano
ricreduti poche settimane dopo, quando aveva esalato l’ultimo
respiro. Anche per questo motivo i miei nonni non si erano opposti
alla renitenza del figlio. Erano più terrorizzati di lui. Fu così
che avevano costruito un muro divisorio per ricavare un
nascondiglio. L’avevano fatto ad opera d’arte, bello spesso in modo
che, bussandoci, non si sarebbe capito che era cavo e avevano
dipinto la parete dello stesso e identico colore delle altre. Zio
Antonio stava lì dentro tutto il giorno e ci usciva solo di notte,
quando dall’esterno veniva poggiata una scala alla sua finestra, e
solo allora poteva avere un po’ di sollievo.
Nessuno si sarebbe accorto che dall’esterno si poteva contare una
finestra in più. Il rischio era comunque altissimo, perché per i
renitenti alle armi c’era la fucilazione. Nonostante ciò, tutti in
famiglia erano disposti a proteggere quel ragazzo, anche mia madre,
allora solo dodicenne.
Anche un’altra famiglia aveva avuto la stessa idea, ma non per nascondere
qualcuno, bensì per proteggere i loro beni più preziosi: quadri,
gioielli, pellicce e cibo.
Quando i tedeschi se ne accorsero, portarono via tutto e distrussero
quello che non potevano prendere: squarciarono una pelliccia e
urinarono su un grande sacco di farina.
Un giorno la nonna pensò davvero di perdere il controllo. Fu quando dei
tedeschi bussarono alla sua porta con due grandi cani. “Oddio ora lo
trovano e me lo ammazzano!” temette, ma poi le venne un’idea. Per
prendere un po’ di tempo, li intrattenne offrendo del buon vino, e
mentre loro se lo sorseggiavano pian piano e non facevano
complimenti per un bis, lei, per depistare il fiuto dei cani, si
affrettò a preparare una frittata piena zeppa di cipolle. Dopo
averla divorata, ci fu comunque un’ispezione al piano superiore. I
tedeschi sembravano già soddisfatti per via della frittata; i cani,
però, erano nervosi. Abbaiavano di continuo. Uno di essi si era
avvicinato al muro divisorio e vi aveva indugiato qualche istante.
Nonna Clara sentì un brivido lungo la schiena, poiché sapeva che il
fiuto dei cani può essere superiore a quello dell’uomo anche di
quaranta volte, tutto però si concluse con un’alzata di zampa per
marcare il territorio.
«Avrebbe dovuto presentarsi alla Tenenza di Chiusi, come gli era stato
comandato, ma da quando è uscito di casa abbiamo perso ogni traccia.
Dovete credermi! Nemmeno una lettera!» Era questa la recita di mia
nonna, quando vennero a cercarlo dalla caserma dei carabinieri. Me
l’aveva raccontato così tante volte, sempre accoratamente e con un
tale senso di smarrimento, che mi si è impresso nella mente in modo
indelebile.
I militari, comunque, non erano sprovveduti, tanto meno indulgenti.
Prelevarono mio nonno e lo portarono in caserma per interrogarlo. A
niente valsero le suppliche e le lacrime di mia nonna e di mia
madre. Per fortuna, venne rilasciato già in serata. Fu grazie
all’intercessione di un religioso alquanto influente, contattato da
mia nonna, che era corsa da lui con una damigiana di olio di olive
appena frante. Era aromatizzato al timo e di un colore verde oro. E
in quell’occasione valse anche più dell’oro.
Dopo quell’episodio zio Antonio andò in crisi. Si sentiva terribilmente
in colpa e, per non mettere di nuovo la propria famiglia in
pericolo, prese una decisione.
«Andò alla macchia», raccontava la nonna, con gli occhi lucidi. «E visto
che non tornava, decidemmo di abbattere il muro.»
Tornai nella sua camera e mi sedetti sul letto. Nella fotografia scattata
dieci anni prima c’ero anch’io: la stringevo forte a me ed era come
se tenessi il mondo tra le braccia.
«Stanotte dormirò qui. So che farà piacere anche a te. Ci sentiremo più
vicini e io ne ho davvero bisogno.»