Capitolo
1
“Tutte le
felicità si assomigliano, tutte le infelicità sono diverse.” Non
ricordo dove lo sentii dire, ma per me è vero. Ci sono dei livelli
di infelicità che lasciano segni permanenti, che nidificano dentro
la nostra anima come un virus allo stato latente, che non si
manifesta quindi con segni o sintomi evidenti, ma che può
condizionare la coscienza. In altri termini, a certe infelicità non
si può ovviare. E io questo lo so bene. La mia vita, infatti, non è
mai stata semplice e già da bambino ero passato attraverso alcune
esperienze che non dovrebbero essere riservate nemmeno agli adulti.
Certe ombre del mio passato, ogni tanto, mi tormentano ancora. A
volte scompaiono, ma solo temporaneamente, per periodi imprecisi, e
prima o poi riemergono.
L’ombra più ricorrente è quella di mio padre, che venne ucciso
quando avevo meno di due anni.
Faceva il poliziotto, più in particolare era un agente di scorta.
Una mattina di un Ottobre maledetto, proprio durante un suo turno di
servizio, ci fu un tentato rapimento di un magistrato e venne
colpito da una raffica di colpi d'arma da fuoco.
Da quel giorno non solo non avevo più un padre, ma non potevo
neanche più rifugiarmi nel suo cuore, dal momento che gli era stato
spappolato. Una parte di esso venne addirittura rinvenuta su una
saracinesca di un negozio.
Tutto ciò che mi resta di lui è una medaglia
d’oro al valor civile. Quando ero piccolo, ero solito tenerla sotto
al cuscino e con l’immaginazione le facevo assumere sembianze umane.
Sognavo così il contatto con mio padre, che mi teneva nel suo letto,
tra le sue braccia. Solo allora riuscivo a sentirmi amato e
protetto. Non era vera felicità, ma mi sentivo appagato. Ogni tanto
infilavo una mano sotto al cuscino e, al contatto col metallo, mi
rendevo conto della fredda realtà.
A volte, quando mi sentivo particolarmente solo, accostavo la
medaglia all’orecchio e restavo immobile ad ascoltare. Immaginavo di
sentire la voce del mio papà. Mi sembrava addirittura di sentir
battere il suo cuore. Forse è stata proprio la mia fervida
immaginazione che mi ha aiutato ad affrontare le difficoltà.
«Sei un bambino forte», mi dicevano tutti.
«Mio padre non è morto, è in missione», puntualizzavo sempre, anche
se sapevo che non sarebbe mai più tornato.
Una notte mi svegliai di soprassalto. Avrò avuto otto anni. Ero al
buio, a letto. Il mio battito cardiaco era
impressionante, sembravano quasi due battiti sovrapposti. La
medaglia, come ogni notte, era sotto al cuscino. La presi e l’andai
a nascondere in un vaso d’ortensie sul balcone della cucina. Non so
perché lo feci. Il giorno seguente, dopo la scuola, tornai a casa
con mia madre e trovammo tutto a soqquadro. C’era ben poco
da rubare, ma quel poco ci fu sottratto: un braccialetto di
mia madre, una modesta collezione di francobolli e una tovaglia
ricamata. I ladri devono però aver rovistato ovunque, perché non
c’era più niente al suo posto. Avevano messo le mani dappertutto, ma
non nel vaso di ortensie. Il tesoro era salvo. Provai ovviamente
rabbia e sdegno per quella selvaggia intrusione, ma
allo stesso tempo fui orgoglioso di me stesso. Mi dicevano che ero
forte e da allora mi convinsi di esserlo.
Una
settimana prima del mio decimo Natale, mia madre venne nella mia
stanza.
«Sei ancora sveglio?»
«Sì.»
Si sedette sul letto, sorridendo, con aria triste.
«Devo dirti una cosa molto importante, amore mio. Ormai sei
grande ed è giusto che tu sappia tutto.» Mi accorsi subito che i
suoi occhi stavano trattenendo le lacrime.
«Che è successo?»
«Domani la mamma deve andare in ospedale.»
«Stai male?»
«Ho dei problemi che si possono risolvere solo con un
intervento chirurgico.»
Uscii dalle coperte e mi sedetti a fianco a lei. L’abbracciai
e dissi: «Mammina, andrà tutto bene?»
Lei non rispose, continuava ad abbracciarmi mentre piangeva
le lacrime che poco prima aveva trattenuto. Io non piansi, ma
soffrivo terribilmente in silenzio.
Restammo chiusi in quell’abbraccio per diversi minuti e solo allora
mi accorsi di quanto il suo corpo si fosse fatto esile.
«Per un po’ starai dalla nonna», aggiunse.
«Posso venire anch’io in ospedale?»
«È meglio di no.»
Non insistetti.
«Devi promettere che sarai forte come sempre, qualsiasi cosa
succeda.»
«Lo prometto, mamma.»
«Ti ho comprato un regalino per Natale. Ce l’ha la nonna. Poi te lo
darà.»
«Grazie. Anch’io vorrei farti un regalo. Che ti piacerebbe?»
«Il regalo più bello della mia vita sei proprio tu da quando sei nato.
Sei il regalo più bello del mondo.»
Mi baciò, dolcemente, poi mi fece sdraiare. Mi rimboccò le coperte e
aggiunse: «Ti voglio bene.» Anch’io avrei voluto dirle che
gliene volevo, ma un nodo alla gola me lo impediva. Non potevo
piangere, avevo promesso che sarei stato forte e volevo
dimostrarglielo da subito. Annuii soltanto. Quando uscì dalla
stanza, però, piansi a dirotto, ma in silenzio. Non volevo, non
potevo assolutamente farmi sentire.
«Non lasciarmi, mamma. Non abbandonarmi pure tu. Anch’io ti voglio bene,
anche se non sono riuscito a dirtelo. Non potrei vivere senza di
te», bisbigliavo al buio. Riuscii a calmarmi solo dopo aver preso la
medaglia di papà. La stringevo forte e me la premevo sul cuore e,
alla fine, mi addormentai.